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Queste le realistiche dichiarazioni di Diego Longo attuale vice allenatore del Al Hilal squadra che milita nel campionato dell’Arabia Saudita.Nonostante questa dura realtà Diego non si è arreso ed è andato a prendersi le sue soddisfazioni in altri paesi. In Romania è arrivato al top allenando la nazionale rumena. Ha vinto anche uno scudetto in Grecia col Paok.
Come hai scoperto il calcio
“Italia – Germania 1982, avevo 6 anni, è stata la prima partita che ho visto, eravamo a casa di amici dei miei genitori. Non dimenticherò mai quell’entusiasmo e quella gioia. Me li porto sempre dentro; quello è l’esempio dell’unità e dei valori che dovremmo trasmettere ai nostri bimbi e ragazzi oggi”.
Quando hai capito che potesse diventare un lavoro?
“Ci ho sempre sperato, era il mio sogno fin da bambino. Io coi lego giocavo a fare le partite e li disponevo in modo ordinato in campo. Ho capito che sarebbe potuta diventare la mia professione quando, a 26 anni, ho avuto i primi riscontri allenando i ragazzi; di lì a poco mi si è presentata l’occasione giusta e mi sono fatto trovare pronto”.
Sei un giramondo come mai hai deciso di non puntare sull’Italia per la carriera?
“Purtroppo l’Italia non offre grosse opportunità a chi non fa parte della cerchia giusta e io non sono il tipo di persona che entra nei “giri” giusti. Ci vuole troppa propensione al far calcoli e capacità di annullare il proprio carattere a vantaggio di chi ti offre la chance. Io in questi 15 anni ho rispettato il mio ruolo, ma ho dato importanza ai miei principi, alla libertà e autonomia di pensiero. I “signor Si” a me non piacciono, figuriamoci esserlo…!
All’estero sono riuscito a portare competenze, entusiasmo e voglia di migliorare ogni giorno; tutto ciò in questi anni è stato apprezzato e mi ha dato la possibilità di vivere esperienze indimenticabili. Spero di aver la possibilità e sto lavorando per tornare in Italia, rispettando il paese calcisticamente più prestigioso al mondo, ma anche avendo la libertà di portare le mie idee e la mia esperienza”.
Hai allenato molto in Romania, arrivando addirittura alla Nazionale. Dove
ti sei trovato meglio e perché?
“Sono arrivato in Romania a 29 anni, ci ho lavorato 7, ma anche nei successivi 8 ho lavorato con un mister rumeno e vissuto esperienze legate a quel paese. Sarò sempre grato alla Romania perché, oltre ad avermi dato la chance di lavorare in questo mondo, mi ha fatto crescere tantissimo a livello umano, prima ancora che professionale. In cambio credo di aver trasmesso anch’io molto, talvolta anche avendo scontri, ma pur sempre rispettandone tradizioni e cultura. Ho tanti amici, parlo perfettamente la lingua e conosco mentalità e usanze. La nazionale è stata una esperienza fantastica, il salto di qualità definitivo. Al di là del prestigio e della soddisfazione personale, ho avuto la possibilità di girare molto per l’Europa e conoscere tanti allenatori, giocatori e confrontarmi con idee diverse. Seguivo i giocatori rumeni in Italia e per questo, tra gli altri, sono stato più volte a Siena da un organizzatissimo Giampaolo, a Palermo da Delio Rossi, alla Lazio da un grandissimo Reja, all’Inter da Mourinho, ma ho anche potuto osservare Mancini all’Inter e al City, Petrescu, Magath, Gullit, Mircea Lucescu, Ranieri e tanti altri.
Ricordo la partita allo Stade de France contro la Francia di Henry, davanti a 80.000 spettatori, pareggiata con grande spirito e che in pratica condannò i francesi allo spareggio contro l’Irlanda del Trap; la partita pareggiata contro l’Italia che, seppur amichevole, mi ha regalato emozioni fortissime, la vittoria schiacciante per 3 a 0 contro la Bosnia di Dzeko e Pjanic.
L’atmosfera del Rapid Bucarest dei miei primi 2 anni rumeni, però, rimane qualcosa di unico. Con l’ultima squadra del ranking Uefa, arrivammo ai quarti di finale di Coppa Uefa, battendo squadroni e campioni affermatissimi. Bellissimo!”
Poi l’avventura in Grecia con il Paok. raccontaci come è andata.
“Intanto devo premettere che senza Xanthi non ci sarebbe stato il Paok, per cui il primo ringraziamento va fatto alla società del presidente Panopoulos e del direttore Yanis Papadimitriou, 2 persone splendide.
Il Paok è bianconero non solo per i suoi colori; non ci sono mezze misure, o tutto o niente! I tifosi creano un ambiente incendiario non solo durante le partite, ma nel quotidiano. Per noi è stata una favola destinata a rimanere leggenda, perché a livello di risultati abbiamo vinto tutto e fatto record storici per la storia del calcio greco. Abbiamo interrotto il dominio dell’Olympiacos che durava da 33 anni, vincendo il campionato senza una sconfitta e col record di punti. A livello umano ho scoperto tante persone sincere e calorose, che ancora oggi sento e a cui sono vicino. Peccato davvero essere dovuto andar via, ma nel calcio come nella vita, mai dire mai”.
Ora alleni la squadra del Hilal come giudichi la tua esperienza e quali sono gli obiettivi?
“L’Al Hilal è una società al top del calcio asiatico, come se in Europa parlassimo del Real Madrid, percui obiettivi, aspettative e pressioni sono sempre elevatissime. Finora è stata un’esperienza molto impegnativa, soprattutto per l’adattamento a una realtà totalmente diversa da quella a cui ero abituato, che a volte ha creato anche qualche tensione e momento difficile, ma assolutamente positiva. Ho avuto la fortuna di confrontarmi con giocatori disponibili, intelligenti e di grande esperienza internazionale; non solo stranieri come Giovinco o Carrillo, ma anche giocatori locali, che stanno scrivendo la storia del calcio asiatico. Insieme abbiamo vinto la Champions League e qualunque cosa accadrà, nessuno potrà mai portarlo via dai miei ricordi e dalla mia storia calcistica”.
Come vedi la ripresa dei campionati dopo il blocco a causa della pandemia?
“Difficile fare ipotesi in questo momento; è una situazione in cui deve essere data precedenza alla salute, per cui lo sport deve fare un passo indietro e aspettare con pazienza. Credo sia necessario sfruttare questa pausa per aggiornarsi e migliorare e non per abbattersi e lamentarsi, anche ne rispetto di chi ogni giorno sta lottando in prima linea per noi”.
Piace molto la soluzione Play Off e Play Out cosa ne pensi?
“Per poter riprendere la stagione e terminare le competizioni deve essere necessario un periodo di quarantena generale che va dalle 2 settimane prima di entrare in contatto col resto della squadra, a tutto il periodo competizionale. Se consideriamo almeno 3 settimane di preparazione, che sono anche poche dopo il lungo stop, e aggiungiamo i tempi per disputare tutte le partite rimanenti, giocando ogni 4 giorni, arriviamo a tempi troppo lunghi in considerazione della prossima stagione. Se si vuol provare a finire la stagione di calcio, ammesso che questa sia la priorità in questo momento, occorre trovare una soluzione che accorci i tempi. Playoff e playout possono essere un’idea. Di certo ci saranno polemiche e scontri durissimi, qualsiasi decisione verrà presa, perché è chiaro che gli interessi in gioco sono tantissimi. La storiella che si vuol giocare per far svagare la gente è evidentemente un pretesto usato per far leva sull’opinione pubblica da chi vuol terminare la stagione”.
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